Vera Vigevani Jarach è una donna minuta, all’apparenza fragile, ma non appena comincia a parlare comprendi la sua determinazione. Quando l’ho incontrata a Tradate lo scorso autunno iniziò la sua conversazione con gli studenti spiegando perché non si è mai “fatta argentina”: ” è una cosa che mi hanno fatto notare di recente, alla quale non avevo mai pensato. Adesso penso che mi farò Argentina solo a una condizione”. Per capire quale, dobbiamo ripercorrere la sua biografia.
Nata a Milano il 5 marzo 1928, nel 1939 la sua famiglia, di origine ebrea, si rifugiò in Argentina per scampare alle leggi razziali fasciste. Qui i Vigevani, che avevano inizialmente pensato di andare il Palestina, incontrano altri italiani e Vera continua gli studi. Dopo la fine della guerra il padre pensa di rimpatriare, ma la ragazza ha nel frattempo conosciuto quello che poi diventerà suo marito, Giorgio Jarach. Determinata a sposarlo, Vera avverte i genitori che sarebbe tornata per questo in Argentina e la madre, non volendo dividere la famiglia già provata dall’esperienza del fascismo e del nazismo, convince il marito a rinunciar all’idea del rimpatrio.
Dopo le prime esperienze lavorative, Vera intraprende la carriera di giornalista culturale nella sede dell’agenzia italiana Ansa, dove rimane fino alla pensione. Nel 1949 Vera e Giorgio Jarach si sposano. Otto anni dopo, il 19 dicembre 1957, nasce la figlia Franca. Genitori e figlia diventano, a detta della madre Vera, un trío que tuvo características muy peculiares, un trio con caratteristiche molto peculiari. Molto brava a scuola, Franca ritiene che l’istruzione e l’educazione siano gli strumenti per cambiare il mondo. Partecipa attivamente alle vita della scuola, nonché ad attività politiche e sociali, maturando un profondo senso di solidarietà umana e di condanna delle ingiustizie. Franca matura anche grandi doti artistiche in ambito di pittura, scrittura e recitazione.
E’ a questo punto che la biografia di Vera si imbatte di nuovo nella storia, in particolare nella dittatura militare di Jorge Rafael Videla, che prende il potere con un colpo di stato il 24 marzo 1976 e impone un governo che mira a fermare qualsiasi forma di opposizione politica e sociale tramite un sistema repressivo basato sulla violazione sistematica dei diritti umani e civili passato alla storia come Guerra Sucia, la guerra sporca. La nuova organizzazione sociale prevede, tra gli altri provvedimenti, lo scioglimento dei sindacati, l’abrogazione dei diritti dei lavoratori e il soffocamento di ogni protesta. Tra coloro che vengono ritenuti pericolosi dal regime vi sono gli studenti, considerati una minaccia poiché pensano, credono nella giustizia, nella solidarietà e nella libertà. Il regime si scaglia anche contro gli insegnanti, colpevoli di fornire ai giovani l’istruzione che la dittatura ripudia. La censura della cultura porta alla persecuzione di artisti, intellettuali, giornalisti, scrittori, musicisti e cantanti, torturati, uccisi o costretti ad abbandonare il paese e si ritorce anche contro gli ebrei, con ondate violente di antisemitismo.
Anche Franca Jarach, la figlia di Vera e Giorgio, viene individuata come elemento pericoloso da parte del regime. In nome dei suoi ideali, Franca si era ribellata alla politica repressiva: come? Prendendo parte all’occupazione della sua scuola in difesa del preside che era stato allontanano o partecipando a un’assemblea nonostante questa fosse stata proibita. Per questo motivo Franca viene espulsa dalla scuola con una quindicina di compagni. Quando i ragazzi sospesi sono riammessi, Franca si rifiuta di tornare in quel clima di divieti e decide quindi di studiare autonomamente, dando poi gli esami di maturità come privatista. A soli diciotto anni, però, Franca verrà catturata e condotta alla Escuela de Mecánica de la Armada, l’ESMA, adibita a centro di detenzione e tortura dei ribelli. Poco tempo prima del sequestro si era unita al movimento studentesco “UES” (Unión de Estudiantes Secundarios), che si opponeva al regime. Vera ha sempre individuato in questo impegno civile di Franca il motivo della sua scomparsa. I genitori della ragazza, consapevoli dei rischi che correva, le avevano più volte consigliato di rientrare in Italia, dove l’avrebbero poi raggiunta, ottenendo sempre un secco rifiuto a parte della giovane, che in queste occasioni diceva di non capire come mai i suoi genitori, che l’avevano sempre allevata nell’idea della giustizia, si opponessero ora alle sue scelte. Le circostanze della cattura di Franca non sono mai state del tutto chiarite: la ragazza sparisce il 25 giugno 1976, mentre si trova nel bar Exedra, o nei pressi di questo. Il fidanzato, a cui Franca ha confessato pochi minuti prima tramite telefono di essere preoccupata per aver perso la sua borsetta, avverte immediatamente i genitori della ragazza. Quindici giorni dopo gli Jarach ricevono un’attesa telefonata da parte della figlia, a cui risponde Giorgio. Egli, come al solito, usa l’italiano per parlare con la figlia; lei lo interrompe dicendogli che le hanno ordinato di parlare in spagnolo. Franca dice loro di stare bene e di essere detenuta presso Seguridad de la Coordinación Federal (in realtà si trova nella ESMA, ma questo Vera lo saprà solo tempo dopo). Li invita a stare tranquilli, in quanto le danno da mangiare, da coprirsi se ha freddo e le medicine in caso di malattia. Chiede al padre come stanno sua madre, Lina – la domestica di casa – e il suo fidanzato. Infine gli dice che lo avvertiranno non appena potrà andare a prenderla e gli indicheranno anche come raggiungerla. La telefonata dà sollievo ai genitori, che solo molto tempo dopo capiranno che si trattava in realtà di un diversivo dei militari per prendere tempo. Molti altri genitori di desaparecidos avevano infatti ricevuto telefonate analoghe. La detenzione di Franca dura qualche settimana: a metà luglio, pochi giorni dopo aver parlato di nuovo con i genitori, Franca è vittima di un “volo della morte”. Questo viene organizzato perché nello stesso mese sono stati condotti all’ESMA moltissimi giovani e le celle scarseggiano. I militari decidono così di uccidere dei prigionieri per fare posto ai nuovi arrivati. Per molto tempo Giorgio e Vera hanno cercato di avere notizie della figlia, all’inizio nutrendo ancora la speranza di trovarla in vita: in questa disperata ricerca condotta anche cercando l’aiuto dell’Italia, Vera incontrerà anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Giorgio, scomparso nel 1991, non ha mai saputo cosa fosse realmente successo alla figlia. Nel 2000, Vera viene messa in contatto tramite un avvocato con una superstite dei campi di concentramento del regime, Marta Alvarez, sequestrata il giorno dopo l’arresto di Franca. Questa aveva visto cose orribili nel centro di detenzione e aveva tentanto di rimuovere tutto. Per questa resistenza al ricordare, Vera deve aspettare circa un anno affinché la Alvarez trovi la forza di parlarle. Oltre a rivelare a Vera la verità circa la morte della figlia, la donna le dice anche che fino all’ultimo momento Franca estaba entera, era intera, era rimasta se stessa, aveva mantenuto la personalità e la forza combattiva che le erano proprie. Ricorda che la ragazza aveva conservato persino il senso dell’umorismo, tanto che in un’occasione le aveva scherzosamente detto:”qui non ho bisogno di fare diete dimagranti con quel poco che ci danno da mangiare”. Marta confessa a Vera che i detenuti non avevano paura, poiché non sospettavano minimamente la fine tragica a cui sarebbero andati incontro, credevano piuttosto di dover affrontare prima o poi un processo legale. Alla fine di quest colloquio Vera chiede se Franca è stata torturata, non ricevendo risposta. Vera, sebbene abbia interpretato questo silenzio affermativamente, è cosciente del fatto che non saprà mai se la figlia abbia subito torture o meno.
Nemmeno Vera accetta passivamente la situazione. Per protestare contro ciò che accade ai loro figli, le madri dei desaparecidos iniziano a trovarsi frequentemente in Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, cercando notizie ufficiali riguardo agli scomparsi. Dal momento che è proibito formare gruppi che contino più di tre persone, inizialmente esse vi arrivano individualmente. Da un certo momento in poi, però, come forma di protesta nei confronti del silenzio del governo, cominciano a recarsi alla piazza in gruppo. Il 30 aprile 1977 le madri di Plaza de Mayo – così prende nome il loro movimento – sfilano per la prima volta circolarmente attorno ad una piccola piramide che orna la piazza. Anche su questo particolare mi piace ricordare una precisazione fatta da Vera in uno dei suoi incontri: “andavamo lì, sapendo di fare qualcosa che non era conentito, ma senza avere bene idea di come potevamo agire. Un giorno un poliziotto ci disse di circolare e noi questo abbiamo fatto: abbiamo iniziato a circolare”. Non so se le cose siano andate esattamente così, ma è la spiegazione più convincente che abbia trovato sulla forma di protesta di queste donne, che portano in testa un fazzoletto bianco con i dati dei figli, donne che oggi, oltre che madri, sono nonne. Il fazzoletto bianco era in origine il primo pannolino di tela usato per i loro bambini. Ciò che mi ha colpito nella dichiarazione di Vera, è che secondo lei quel gesto venne naturale soprattutto perché avevano tutte coscienza del fatto che dovevano muoversi, fare qualcosa se volevano che le cose cambiassero. Dall’aprile 1977 la pratica si ripeterà ogni giovedì pomeriggio dalle 15:30 alle 16:00.
Tramite l’associazione delle madri di Plaza de Mayo, alla quale ben presto Vera si unisce, comincia a incrinarsi il muro di silenzio che si era creato intorno alla questione desaparecidos. Le madri hanno per la prima volta la possibilità di farsi notare e ascoltare. Un momento fondamentale è rappresentato dai campionati mondiali di calcio del 1978, che si svolgono in Argentina. In questa occasioni le madri hanno la possibilità di parlare con i giornalisti venuti da ogni parte del mondo, diffondendo anche all’estero le loro storie.
In seguito alla caduta della dittatura, iniziano le operazioni per la ricerca sistematica dei resti dei desaparecidos, identificando quelli ritrovati tramite test del DNA; si comincia a raccogliere le testimonianze dei superstiti e ad agire in campo di giustizia. È nel 2003 la prima grande conquista del movimento: vengono abolite le leggi del “punto finale” e dell'”obbedienza dovuta”, che avevano garantito fino a questo momento dell’immunità dei ex militari della Giunta. Grazie alla pressione delle Madri hanno preso avvio i processi per condannare i colpevoli, alcuni dei quali sono ancora in corso. Si è scelto di riunire tra loro le cause che presentano maggiore similarità per velocizzare i tempi e tutelare i testimoni, sottoposti continuamente a pressioni, intimidazioni e minacce.
Un procedimento giudiziario a cui Vera ha partecipato attivamente è il processo ESMA, le cui udienze sono tenute in Argentina e in Italia (molti desaparecidos sono italiani o hanno, come nel caso di Franca Jarach, origini italiane). Il 24 aprile 2008 si è conclusa la sequenza di udienze svoltesi in Italia: la Corte d’Assise di Roma ha condannato all’ergastolo cinque ufficiali della Marina argentina.
Dal 1986 l’associazione si scinde in due e Vera diventa esponente delle Madres de Plaza de Mayo – Línea Fundadora, una delle due fazioni formatesi della scissione (l’altra è il gruppo Asociación Madres de Plaza de Mayo, guidato da Hebe de Bonafini). Le madri della línea fundadora, differentemente dalle altre, hanno accettato il denaro che il presidente Alfonsìn ha dato loro come risarcimento per la perdita dei figli, risarcimento utilizzato per le operazioni di recupero dei resti degli scomparsi. Esse sono attualmente molto attive per mantenere la memoria e diffondere il ricordo attraverso le loro testimonianze, motivo per cui partecipano spesso a iniziative e incontri.
Proprio per questi incontri Vera torna spesso in Italia, perché il “nunca mas”, la rottura del silenzio, è a suo parere un’arma potentissima e non vuole smettere di utilizzarla contro i responsabili della morte di sua figlia. Raccontare la sua storia è per lei un modo perché non vada dimenticata e anche per tenere viva l’attenzione verso i “sintomi” che annunciano, sempre, la fine della democrazia. Come dicevo all’inizio, Vera ha ancora un motivo per “farsi argentina”. Non una tomba su cui piangere la figlia, di cui è consapevole non potrà mai riavere il corpo. Una mancanza che aveva già sperimentato: suo nonno, “fiducioso nel fascismo”, non aveva voluto seguire il resto della famiglia in Argentina ed era sparito ad Auschwitz. Ma lei, col fazzoletto bianco in testa e il volto di Franca riprodotto nella spilla appuntata sul petto, una cosa ancora sa di poterla ottenere, per la sua ragazza: una sentenza. Fino a quel momento, non si sentirà di fare questa scelta.
Intanto, giovedì 16 febbraio 2017 incontrerà ancora degli studenti, a Borgomanero, per portare la sua testimonianza:
« Mi chiamo Vera Vigevani Jarach e ho due storie: io sono un’ebrea italiana e sono arrivata in Argentina nel 1939 per le leggi razziali; mio nonno è rimasto ed è finito deportato ad Auschwitz. Non c’è tomba.
Dopo molti anni, altro luogo, in Argentina, altra storia: mia figlia diciottenne viene sequestrata, portata in un campo di concentramento e viene uccisa con i voli della morte. Non c’è tomba.
Queste due storie indicano un destino comune e fanno di me una testimone e una militante della memoria”
Elena Mastretta