galleria fotografica della giornata
Sabato 12 dicembre è iniziato il percorso di formazione dei partecipanti al progetto ProMemoria Auschwitz 2016. Ragazzi e formatori, provenienti da tutta la Provincia, hanno raggiunto Orta con due bus e qui hanno trascorso l’intera giornata, alternando momenti di approfondimento storico ad attività funzionali alla creazione del gruppo. Il format con cui si svolge la preparazione alla partenza è ormai collaudato dai quattro precedenti anni di esperienza e coinvolge l’istituto Storico Piero Fornara, che si occupa dei contenuti storici, e Sermais, che in collaborazione con Deina e con il Gec della Memoria locale, si occupa della parte organizzativa e di quella motivazionale. La formazione del gruppo sarà quest’anno particolarmente impegnativa, in quanto hanno risposto all’invito a partecipare, inoltrato con l’aiuto dell’ufficio scolastico provinciale, oltre 120 ragazzi e alcuni adulti. La maggior parte degli iscritti, 42, sono residenti a Novara, ma molti sono i partecipanti residenti nei diversi comuni del Novarese: 15 ragazzi provengono da Galliate, 21 da Trecate, 7 da Cameri, 3 da Romentino, oltre che da Oleggio, Palestro, Cavaglietto, Bellinzago Novarese, Casalvolone, Garbagna Novarese, Casalino, Borgolavezzaro, Borgoticino, Cerano, Granozzo con Monticello, Fara Novarese, Suno, Borgomanero, Maggiora, Ferno, Gozzano, Cilavegna, San Pietro Mosezzo, Chieri, Meina.
Il percorso di formazione parte dalla conoscenza dell’Olocausto del Lago Maggiore, la prima strage di ebrei avvenuta in Italia, la più consistente numericamente dopo quella delle Fosse Ardeatine, consumatasi a ridosso dell’8 settembre 1943 e che ha coinvolto 9 comuni, oggi appartenenti alle province di Novara e del Verbano-Cusio-Ossola. Conoscendo ciò che è accaduto sul loro territorio, i ragazzi sono portati a farsi domande che riguardano le costanti universali del comportamento umano in situazioni di difficoltà: un passaggio che gli organizzatori ritengono necessario prima della visita a Cracovia.
Questo è il primo anno in cui l’incontro sulla storia della shoah locale si svolge ad Orta (negli anni precedenti erano stati coinvolti i comuni di Baveno e Meina) e l’accoglienza e la disponibilità dell’amministrazione locale – in particolare del sindaco Giorgio Angeleri, che ha accettato subito di ospitare i numerosi partecipanti, mettendo a disposizione la sala consiliare, il giardino intitolato a Giulia Cardini e un’aula di appoggio, e ha preso parte alle attività – hanno permesso di sfruttare appieno la giornata , che è iniziata con la ricostruzione di uno degli episodi meno noti del’Olocausto del Lago Maggiore, quello che vide, il 15 settembre 1943, l’arresto di Mario e Roberto Levi, rispettivamente zio e cugino di Primo Levi, successivamente spariti senza lasciare tracce. Oggi, dopo oltre settant’anni dai fatti, siamo in grado di ricostruire la dinamica di molti degli arresti, soprattutto grazie al processo celebrato a Osnabrück nel 1968, in occasione del quale furono rintracciati e interrogati molti testimoni dei fatti di quei giorni, e agli studi che l’Istituto Fornara ha, insieme ad altre istituzioni, costantemente promosso, anche se si tratta di una pagina di storia sulla quale ancora molta ricerca deve essere condotta, come dimostrano le tesi di laurea che continuano a essere assegnate in diverse università italiane e straniere. Non si è affatto certi, ad esempio, che il numero delle vittime – ad oggi ne sono state accertate 57 – sia definitivo: molti ebrei che all’indomani dell’armistizio si trovavano nelle nostre zone stavano cercando di mettersi in salvo passando in Svizzera e quindi non erano registrati o conosciuti: alcuni di loro potrebbero essere stati arrestati e uccisi sul posto, senza che le comunità locali se ne accorgessero e senza che mai qualcuno chiedesse loro notizie.
Non è questo il caso dei Levi, nonostante la loro storia, nella generale scarsa conoscenza dell’Olocausto del Lago Maggiore, sia praticamene ignota. Cosa è stato dei due uomini dopo l’arresto e la salita sulla camionetta delle SS nella piazza principale di Orta più di settantadue anni fa resterà un mistero, al quale per molto tempo Elena Bachi, giovane sposa di Roberto Levi, ha cercato di trovare risposta. Proprio dai suoi diari e dalla lettera che inviò al presidente del Tribunale di Osnabrück possiamo invece ricostruire minuto per minuto quell’ultimo pomeriggio in cui le due coppie, che, a causa dei bombardamenti in corso su Torino, loro città di residenza, si trovavano a Orta nell’alloggio che i Levi affittavano da anni per la villeggiatura e che furono difese in ogni modo dal Podestà Galli, vennero definitivamente separate. I tedeschi, dopo un concitato pomeriggio di ricerche e interrogatori, arrestarono solo i due uomini, nonostante in un primo tempo avessero manifestato l’intenzione di voler condurre via anche Elena. Uscirono tutti insieme dal portone al civico 50 di via Olina, dove una lapide ricorda oggi la loro vicenda, e percorsero già separati i pochi metri fino alla piazza centrale: tra i soldati tedeschi Mario e Roberto, pochi passi dietro Emma ed Elena. Calato il tramonto, la camionetta partì con i due uomini a bordo. Le loro mogli, che, come molte altre in quegli stessi giorni, avevano una percezione molto imprecisa di come fosse cambiata la situazione degli ebrei in Italia con l’occupazione tedesca, si recarono il giorno successivo di comando in comando a cercarli, fino a quando un padre rosminiano a Stresa non diede loro il consiglio giusto: smettere di cercare e pensare piuttosto a mettersi in salvo.
Proprio per favorire una maggiore conoscenza di questo episodio, che si immaginerebbe noto ai più, dal momento che le vittime sono legate da stretta parentela con Primo Levi e che Carole Angier, autrice della biografia più completa dello scrittore torinese, dedica alla vicenda diverse pagine, nel corso della mattinata ci si è a lungo soffermati sulle poche ore che videro Mario e Roberto Levi passare da uomini liberi a vittime dell’Olocausto. Stando alla puntuale ricostruzione che Elena Mastretta ha realizzato della vicenda confrontando le diverse fonti di stampa, dal momento in cui i tedeschi si presentarono ad Orta a quando Mario e Roberto Levi vennero visti vivi per l’ultima volta passarono dalle tre alle quattro ore. Ore in cui il podestà provò a nascondere l’uomo più anziano, in cui il paese assistette all’arresto, gli abitanti ebbero modo di avvisare Emma, la moglie di Mario, di quanto stava accadendo a casa sua. Emerge da questo quadro una comunità che i Levi, Elena esclusa, dovevano giudicare amica, ma che deve avere nascosto un traditore, se la Bachi afferma: «qualcuno che ci conosceva bene sicuramente ci denunciò, e le SS arrivarono lì, proprio per noi».[1]
Tra il diario di Elena e la biografia della Angier ci sono delle discrepanze, oltre che, naturalmente, delle congruenze, giustificate dal fatto che uno scritto personale, che si dipana lungo tanti anni, risente inevitabilmente dei cambiamenti caratteriali di chi lo scrive, dei suoi stati d’animo. Di certo, concordano su un punto: nell’anomalia dell’Olocausto che si consumò nell’allora provincia di Novara tra il settembre e l’ottobre del 1943, quanto accadde ai quattro componenti della famiglia Levi sfollati sul lago d’Orta è ancora più anomalo. Non solo non si ha alcuna certezza su quale sia stata la fine dei due uomini – uccisi e poi gettati nel lago? fatti sparire in altro modo? deportati? – dato che l’ultima volta che furono visti erano sulla camionetta delle SS, ma i loro cadaveri non furono mai ritrovati.
Rispetto a quanto pubblicato nelle ricostruzioni storiche della strage, Vengo domani, zia, il libro pubblicato da Simonetta Bachi, nipote di Elena Bachi, ci permette di conoscere aspetti della vita di Elena e Roberto Levi che non sono del tutto estranei alla strage, anche se si collocano a margine di essa: il tipo di vita che i figli della borghesia ebraica torinese hanno condotto fino al 1938, la brusca cesura imposta dalle leggi razziali, l’incontro tra i due giovani, in un certo senso favorito, come il loro matrimonio, proprio dalle mutate condizioni di vita, il legame di amicizia con la famiglia Ovazza, residente a Moncalieri e poi scomparsa a Intra,[2] la decisione di convertirsi al cattolicesimo, i violenti bombardamenti che colpirono Torino e che spinsero l’intera famiglia a trasferirsi a Orta, la tragedia; ma anche ciò che accadde dopo, il ruolo giocato dal podestà locale, Giuseppe Galli, e dal parroco di Omegna, Don Annichini. Solo Elena sembrava non sentirsi a suo agio in quel luogo così amato dalla sua nuova famiglia: «Forse il dolore di sentirsi esclusa, che era penetrato in profondità dentro di lei, la rendeva sempre pronta a captare il pericolo, o, forse più semplicemente, a Orta non si sentiva altrettanto a casa. A ogni modo disse subito che non si sentiva più sicura in Italia e che dovevano partire. I Levi la guardarono con commiserazione, ma naturalmente Roberto disse che l’avrebbe accompagnata ovunque. E così decisero: i due giovani sarebbero andati in Svizzera, mentre Mario ed Emma avrebbero atteso la fine della guerra a Orta».[3] Nonostante le odiose vessazioni che il fascismo aveva inflitto agli ebrei, dunque, anche famiglie che hanno la possibilità culturale di comprendere e quella economica di fuggire, stentano a cambiare radicalmente la loro vita, non percependo fino in fondo il pericolo che incombe su di loro.[4] Conoscendo le conseguenze della scelta di non rifugiarsi in Svizzera di Emma e Mario, oggi siamo portati a chiederci perché la richiesta di Elena di mettersi in salvo sia stata sottovalutata. Al di là delle vere motivazioni che la provocarono e delle modalità con cui la strage fu condotta, ancora terreno di discussione fra gli storici, del non definitivo numero delle vittime, delle loro biografie dai contorni spesso incerti, ciò che sembra accomunare nelle testimonianze la dinamica dei diversi episodi della strage è la non consapevolezza degli israeliti della nuova situazione in cui venivano a trovarsi in Italia dopo l’armistizio. Non poterono salvarli la conversione al cattolicesimo, l’adesione al fascismo, l’età, il genere, la condizione economica: solo la generosità di chi mise in gioco la propria vita per salvare la loro e il caso. Se Elena e Roberto Levi fossero andati a Omegna il 15 settembre 1943, si sarebbero salvati entrambi per lo stesso tramite che mise poi in salvo la sola Elena: Don Annichini. Il sacerdote aiutò infatti successivamente la donna, fornendole una falsa identità e ospitandola presso parenti, non riuscendo a mettere in atto il precedente piano di espatrio in Svizzera.
L’episodio ortese è stato ricordato anche con la visita alla lapide, ma tutte le stragi che hanno toccato Arona, Baveno, Bée, Intra, Meina, Mergozzo, Novara, Stresa sono state raccontate ai ragazzi, evidenziandone similitudini e differenze e iniziando una serie di riflessioni sulla storia locale e su quella europea: “come fu umanamente possibile”, è la domanda senza risposta con la quale cercheremo di accrescere la nostra conoscenza storica e dei fenomeni umani da qui al 30 aprile prossimo, giorno in cui, terminato il viaggio e il percorso di rielaborazione, i partecipanti presenteranno alla comunità novarese la loro esperienza.
I lavori sono stati coordinati da Davide Tamagnini, responsabile del progetto, e da un gruppo di ragazzi che, dopo aver partecipato alle precedenti edizioni del progetto hanno dato vita al Gruppo di educazione alla cittadinanza (GEC): Debora Potenza, Hamdi Hoxha, Filippo Tran Van, Marta D’Auria, Rachele Ferrari, Camilla Mastroluca, Carmen Natale, Alessandra Iorio. A loro si aggiungeranno Carlotta Barlassina, Simone Negro, e Viviana Barucchelli, che accompagneranno i partecipanti durante il viaggio. Per l’Istituto Storico sono intervenuti il direttore scientifico, Giovanni Cerutti, e la responsabile della sezione didattica, Elena Mastretta.
I prossimi appuntamenti formativi si svolgeranno la mattina del 9 gennaio a Novara e il 28 gennaio, sempre a Novara, quando, in occasione delle celebrazioni ufficiali per la giornata della memoria 2016, il gruppo incontrerà Rossana Ottolenghi, figlia di Becky Behar, una delle sopravvissute alla strage del lago Maggiore, che a lungo si è spesa come testimone di quei fatti, e di Paolo Ottolenghi, anch’egli scampato in giovane età alle persecuzioni antiebraiche.
Elena Mastretta
[1] Simonetta Bachi, Vengo domani, zia, Genesi Editrice, Torino 2000, p. 195.
[2] Elena Bachi cita due volte la famiglia Ovazza, con cui ha contatti fino a quando rimane a Torino. Interessante quanto da lei riportato della vita normalmente condotta dalla famiglia Ovazza prima della tragedia. La prima citazione risale al 1936, quando Elena, che ha vinto il doppio di un torneo di tennis, si reca con tutti i partecipanti a festeggiare nella villa di Moncalieri degli Ovazza. Con molta probabilità è nella stessa villa che sono diretti e passano la notte, a causa dei bombardamenti che hanno colpito Torino, Elena e Roberto il 26 novembre 1942: «Alla sera […] partimmo verso Moncalieri per trascorrervi la notte […] ci avviammo a piedi alla villa degli amici che ci avrebbero ospitati». Vedi Simonetta Bachi, Vengo domani, zia, p. 120 e pp. 186-187.
[3] Ibidem.
[4] Simonetta Bachi, Vengo domani, zia, p. 153. Circa l’approvazione delle leggi razziali Elena Bachi annota: «tornammo alla fine di luglio, proprio il 26, data che non dimenticherò mai, perché vennero rese pubbliche le leggi razziali, emesse il giorno prima. E, in breve tempo, cambiò tutta la nostra vita». Sono diversi gli eventi storici che la Bachi annota con precisione nel suo diario, sempre legandoli a un mutamento nel suo atteggiamento verso la vita.