Nell’era della “deriva morale”, della relativizzazione delle responsabilità del passato, delle falsificazioni storiche più o meno mediatiche, della “fine della storia”, le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea ci richiamano ad un dovere civile e politico: tornare ad ascoltare le voci del passato, le voci delle vittime di allora, tornare a una lettura filologicamente corretta, la più corretta possibile, degli originali o di ciò che il tempo ci ha consegnato. E non tanto per non dimenticare, che pure è atto dovuto, quanto per poter orientarci nelle sfide del presente, nel tempo dell’incertezza, delle nuove guerre che guerre non chiamiamo, dei nuovi muri che muri non vediamo, del nuovo razzismo che razzismo è.
Le drammatiche vicende umane dei ventiquattro partigiani e civili della lotta di liberazione novarese, autori delle trentacinque lettere qui presentate si snodano lungo l’intero arco temporale della resistenza italiana e locale: dalla prima insurrezione popolare contro l’invasore nazista del novembre 1943 a Villadossola, sino alle soglie della liberazione, nella primavera del ’45, nei giorni dell’inutile furore, quando, pur nell’ineluttabilità della fine del fascismo e della guerra, si continuava a morire nelle strade, nei boschi o davanti ad un improvvisato plotone d’esecuzione, quasi che l’odio ideologico non dovesse trovare altra soluzione se non la morte di tutto e di tutti.
Ma la forza evocativa di queste brevi missive ci porta dentro anche alla dimensione nazionale ed internazionale della Resistenza come fenomeno d’opposizione armata o disarmata, organizzata o meno, al nazismo e al fascismo, opposizione che si sviluppò in ogni paese occupato prima e durante il secondo conflitto mondiale. Basta guardare i luoghi di nascita e i luoghi di morte dei ventiquattro partigiani e civili estensori di queste lettere.
Il suggerimento che mi sento di dare al lettore di oggi, a oltre sessant’anni da quei fatti, è proprio quello di non fermarsi all’emozione profonda che le loro piccole tragiche storie inevitabilmente suscitano, ma cercare di guardare dentro e oltre le loro vite spezzate, ponendosi tutti i perché che esse alimentano.
Si scoprirà che anche nei nostri territori, come un po’ ovunque in Europa e nel mondo, si consumarono i medesimi drammi, si vissero le stesse distruttive dinamiche della guerra totale. La vecchia provincia di Novara (vecchia e non antica, perché se nel 1927 fu divisa in due con la nascita della provincia di Vercelli, nel 1995 sorgevano le Province di Biella e del Verbano Cusio Ossola) fu anch’essa teatro di un’occupazione feroce da parte della armate di Hitler (qui si consumò la prima e più terribile strage di ebrei in territorio italiano, qui caddero oltre 1200 tra partigiani e civili, da qui furono inviati nei campi di internamento militare migliaia di soldati e sempre qui furono rastrellati centinaia di ebrei, oppositori politici, partigiani e semplici giovani, donne o uomini indifferentemente, per essere spediti nei campi di sterminio o di lavoro coatto in Germania). Sempre la nostra vecchia Provincia, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, vide il sorgere di un movimento partigiano che, pur nella diversità delle ispirazioni politiche, seppe scrivere pagine di assoluta civiltà, come i famosi “quaranta giorni di libertà” dell’Ossola, quando per oltre un mese quel territorio fu retto da una Giunta provvisoria di governo, capace di sperimentare nuove forme di democrazia, o di grande maturità, come in occasione del salvataggio degli impianti, delle centrali elettriche, della galleria del Sempione. E accanto al movimento, fiorirono e rifiorirono i partiti politici, così come straordinarie organizzazioni civili come i sindacati, i gruppi di difesa della donna, il fronte della gioventù. Alla resistenza armata si affiancò una irriducibile resistenza civile, per nulla passiva, nella quale operai, donne, contadini, studenti e intellettuali fecero terra bruciata attorno agli occupanti. Mai, lungo l’intero arco della guerra in casa, il territorio fu completamente sotto il controllo nazifascista. Fuori dai presìdi fortificati, linee di comunicazione, centri di produzione, boschi, cascinali, villaggi, baite furono terreno della e per la resistenza.
Se il difficile e costoso passaggio verso una società democratica fu qui più che altrove meno traumatico, il merito va tutto ascritto a una Resistenza che non solo ha combattuto contro gli oppressori, ma ha sempre guardato al futuro, sperimentando, quando non anche inventando, forme nuove di una società migliore e pacificata.
Di contro, il crollo del regime politico-militare nazifascista avvenne per gradi, ma inesorabilmente, lasciando dietro di sé odi e ferite che faticarono a rimarginarsi.
Fallirono, infatti, tutti i tentativi di darsi un’identità legittima, riconosciuta e riconoscibile, e questi fallimenti furono alla base della radicale rottura con le popolazioni, nonché di un’oppressione fine a sé stessa tanto impotente quanto feroce.
La “marcia contro la Vandea piemontese” voluta da Mussolini per fermare il crescente movimento di resistenza, si risolse in una serie infinita di rastrellamenti, di sistematiche distruzioni, di indiscriminate stragi e fucilazioni che si protrasse sino agli ultimi giorni e che lasciò dietro si sé un’incredibile scia di sangue. Ma fallì anche questo tentativo di risolvere la propria crisi di identità attraverso lo sforzo repressivo.
La memoria di quel tempo è dunque una memoria inquieta e divisa, mentre la storia ha ricostruito e giudicato, anche al di là dei tentativi più o meno onesti di riscriverne pezzi ad uso e consumo della politica o dei media.
Restano quei biglietti ingialliti, quelle parole che sembrano pietre, quel testamento morale di una generazione.
Le lettere qui segnalate, a volte semplici biglietti, sono tutto ciò che è stato trovato. Non deve stupire il loro esiguo numero e la loro frammentarietà perché solo a pochissimi il destino o i carnefici concessero qualche ora o qualche minuto, un foglio e una penna, per scrivere. Anzi, è proprio la disparità fra le migliaia di giustiziati e le pochissime lettere raccolte che deve far riflettere.
Esse non documentano, non possono farlo, la vastità, le proporzioni, la complessità delle circostanze in cui milioni di persone persero la vita durante il secondo conflitto mondiale.
Le lettere sono trentacinque, scritte da ventiquattro partigiani o civili, tutti o quasi giovani e giovanissimi. Si è però deciso di segnalare anche un venticinquesimo partigiano, autore di un ultima lettera purtroppo andata perduta ma di cui vi è precisa testimonianza dell’esistenza, Erminio Marini.
Le lettere di Giuseppe Serazzi, di Giuseppe Comanduli e di Clotilde Giannini non sono in realtà di condannati a morte, ma “testamenti spirituali” essendo state scritte poco prima della morte alla fidanzata, alla mamma e al marito non in specifica presenza di un plotone d’esecuzione o di una condanna. Le abbiamo segnalate ugualmente.
Mauro Begozzi
Bibliografia
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Mauro Begozzi, Non preoccuparti che muoio innocente. Lettere dei condannati a morte della Resistenza novarese, Interlinea, Novara, 1995 (seconda edizione 2005);
Mimmo Franzinelli, Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza 1943-1945, Mondadori, Milano 2005,
Enrico Massara, Crimini dei nazifascisti in provincia di Novara, La Foresta Rossa, Novara, 1956;
Crevoladossola: segni di una guerra passata, curato dai ragazzi della Scuola Media Statale “Ceretti” di Crevoladossola, 1994;
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Ercole Ongaro, Guerra e Resistenza nel lodigiano 1940-1945, Il Papiro Altrastoria ed., Lodi 1994
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Maria Antonietta Arrigoni – Marco Savini, Dizionario biografico della deportazione pavese, Milano, Edizioni Unicopli , 2005.
Giulio Guderzo L’altra guerra, Bologna, Il Mulino, 2002.
Sitografia
L’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia “Ferruccio Parri” di Milano ha coordinato una ricerca sulle lettere durata alcuni anni e i cui risultati sono oggi consultabili sul sito ultimelettere.it.