Premessa: vivere, morire, combattere
Dentro alla modernità della prima guerra mondiale (1) c’è spazio anche per un nuovo senso della morte. Se è vero che un soldato in guerra mette in conto di morire e non fare rientro a casa (2), l’esperienza della morte nel primo conflitto mondiale appare da un lato del tutto nuova e, dall’altro, capace di dare origine a un vero culto dei morti e della loro memoria (3). La guerra, inoltre, comporta anche una organizzazione efficace del morire, attraverso le modalità di raccolta dei feriti sui campi di battaglia, il «che fare» sulla scorta della gravità delle ferite stesse, il trasporto dei feriti agli ospedali da campo, immediatamente dietro le linee, e il loro eventuale e successivo invio agli ospedali nel paese, attraverso treni ospedali o ambulanze. Infine, i puri dati numerici dei caduti sono in grado di rivelarci senso e dinamiche del morire in guerra. Non va dimenticato, inoltre, un altro prodotto della guerra: i malati, sia fisici che mentali (4), e i mutilati. La Sanità militare italiana, nel corso del conflitto, dispone di 443 ospedali da campo e 980 ospedali di riserva – Novara è tra questi – posti all’interno del paese. A queste strutture si devono aggiungere gli impianti della Croce rossa italiana, con 204 ospedali territoriali nel paese, 65 ospedali di guerra, 3 ospedali di tappa, 3 ambulanze chirurgiche e 24 treni ospedale (5). Si tratta di dati che danno l’idea del servizio, probabilmente approssimativi; certo indicativi che, soprattutto nelle fasi iniziali del conflitto, l’organizzazione dell’assistenza ai feriti è largamente inadatta alla nuova guerra che ci si ritrova a combattere (6). Nuova guerra perché? Perché gli scontri non sono le battaglie di una o poco più giornate come in passato: gli scontri si protraggono anche per settimane, mesi, con diverse fasi (7). Nuove sono le ferite, provocate non più da armi da taglio o da punta, ma da proiettili di fucile o mitragliatrice, e soprattutto dalle esplosioni. Nel corso del conflitto mediamente solo l’1 per cento delle ferite riportate dai combattenti è riconducibile ad armi bianche, ben il 30 per cento da proiettili di fucile o mitragliatrice e quasi il 70 per cento da esplosioni (8). Una contabilità illuminante: molto spesso le ferite da taglio riscontrate sui caduti, e portate con baionette o sciabole, sono inferte post mortem; così come le ferite provocate da esplosione vanno spiegate con le esplosioni che scagliano all’intorno schegge metalliche incandescenti e devastanti, ma anche capaci si sollevare schegge di roccia del terreno, anch’esse causa di ferite terribili. In aggiunta, le ferite da schegge, sia di proiettile che di roccia, più facilmente sono sporche, cioè portano all’interno dell’organismo terra e altri elementi sollevati dal terreno, con effetti drammatici e con un aumento della probabilità di morire per infezione. Quanti furono i morti causati in Italia dalla prima guerra mondiale? È una domanda sinora senza risposta certa e forse destinata a rimanere tale. La cifra, o meglio: l’ordine di grandezza, di 680.000 morti, pari al 3,5 per cento della popolazione, ancora recentemente fornita è evidente approssimazione di un evento la cui precisa quantificazione sconta imprecise registrazioni, ridondanze, non ultimo errori (9).
Rappresentare la morte, organizzare la memoria
L’amministrazione comunale di Novara che negli anni della guerra e nell’immediato dopoguerra governa la città – socialista, guidata prima dal medico Luigi Giulietti, poi dal professor Giuseppe Bonfantini – a guerra non ancora conclusa ha già chiaro il senso da dare alla rappresentazione della memoria, da rendere in strumenti pubblici, della guerra stessa. A pochi giorni dalla fine della guerra, il 13 novembre 1918, il Consiglio comunale delibera la realizzazione di ben tre lapidi, a ricordo dei combattenti: le prime due da sistemarsi nel Municipio, dedicate ai morti nella guerra mondiale e nelle guerre coloniali in Libia ed Eritrea; la terza al cimitero urbano, proposta, quest’ultima, che nei mesi successivi viene sostituita dal progetto e realizzazione dell’obelisco e della cripta ossario alla sua base. Una scelta chiaramente di classe, che indica – nella grande targa opera dello scultore Domenico Rossi e collocata in Municipio – la «condizione», cioè il mestiere, di ciascun caduto, evidenziando in modo chiaro e immediato quanto abbiano pagato i ceti popolari in termini di morti nel conflitto appena concluso (10). Nell’organizzazione del ricordo e della memoria voluta dalla giunta Bonfantini trova spazio anche un affratellamento fra caduti: infatti è intenzione della giunta socialista di unire nel ricordo i caduti italiani e austriaci nell’obelisco del cimitero urbano, collocando lapidi con i nomi di tutti i caduti. Si compie invece la scelta contraria (11), in occasione dell’inaugurazione del monumento, nel 1923, da parte dell’amministrazione Bocci che è succeduta a Bonfantini dopo i fatti dell’estate 1922, cioè l’allontanamento violento dell’amministrazione socialista da Palazzo Cabrino a opera delle squadre fasciste, in una vera e propria anteprima della Marcia su Roma dell’ottobre dello stesso anno.
Fonti
La targa di Domenico Rossi, inaugurata il 4 novembre 1922, è usata e interpretata per il presente lavoro come un documento, una fonte e un agente della storia. A questa si aggiungono naturalmente le indicazioni schematiche e preziose dell’Albo d’oro dei caduti della Grande guerra, che ha una edizione on line al sito www.cadutigrandeguerra.it facilmente consultabile per cognome; vedi anche www.albodoroitalia.it. Ma qui si vuole richiamare l’attenzione soprattutto sul ricchissimo e inedito database rappresentato dalle migliaia di fascicoli personali del personale militare della grande guerra (12) collocato nell’Archivio del Comune di Novara (13). Nei fascicoli – oltre duemila – è ricostruita la vicenda di soldati, novaresi e non (14), morti in guerra o per causa di essa, feriti, prigionieri o dispersi. Un fondo di estremo interesse, capace di travalicare lo stretto ambito familiare (15) per restituire il chiaro quadro non solo delle vicende dei singoli ma anche dell’attività delle strutture comunali nel ricevere, fornire e valutare notizie di militari e famiglie, e svolgere così un ruolo preziosissimo e fondamentale di mantenimento del tessuto relazionale e umano fra chi è al fronte e le famiglie a casa.
692 e oltre …
Di fronte alla grande targa dei caduti il primo quesito è: l’elenco è completo? Un primo elenco di militari «già appartenenti a questo Comune e caduti durante la guerra 1915- 1918» è redatto per l’erezione dell’obelisco al cimitero urbano e consta di 679 nomi (16). Si tratta di un elenco preparato dagli uffici comunali e da questi verificato più volte. Per la targa ne sono inseriti 13 in più, per complessivi 692 nomi. È un elenco completo? Probabilmente sì, anche se permangono incertezze su alcuni nominativi che, dalla documentazione personale dei militari conservata nell’archivio comunale, parrebbero residenti in Novara e su alcuni casi dubbi (17). Dalla targa mancano certamente coloro che morirono dopo il novembre 1920, data limite per essere ritenuti morti in guerra o per causa di essa, un necessario limes burocratico che però non fa comprendere come la guerra possa, in realtà, uccidere anche a distanza di anni, molti anni. Dalla lapide manca quindi, ad esempio, il soldato Angelo Agnesina, che muore a Novara nel 1921, ferito di guerra (18); manca il bersagliere Mario Aleardi, che muore nel 1923 per una malattia che lo tormenta dalla fine della guerra (19); manca Luigi Bortolini, originario di Milano, ma residente a Novara, morto nel 1923 nel capoluogo lombardo: gli era stata riconosciuta una pensione di guerra perché aveva contratto la tubercolosi mentre era in servizio (20); manca anche Angelo Anadone, secondogenito di Carlo Anadone, pioniere della fotografia novarese e pittore, morto a Torino nel marzo 1926, con la salute minata dalla guerra, dove è stato prima ferito poi catturato dal nemico e internato nel campo di prigionia di Sigmundsherberg. Non compaiono, naturalmente, coloro che furono fucilati nei processi sommari, nelle decimazioni o che persero la vita a causa di provvedimenti comminati per mantenere la disciplina nell’esercito. Manca quindi il nome di Pietro Scribante «piemontese di Novara» fatto fucilare con l’accusa di codardia dal generale Andrea Graziani nel 1917. Il plotone di esecuzione era composto da «compaesani e amici del codardo». Analizzando la condizione riportata sulla targa, si evince come un caduto novarese su tre svolge un mestiere legato alla terra: contadino, nella maggior parte dei casi, ma anche bracciante, salariato, cavallante, famiglio. È una conferma della composizione sociale del Regio Esercito, un esercito contadino anche se non esclusivamente contadino. Così come, in linea con i dati nazionali risulta essere l’appartenenza di corpo dei caduti: la maggior parte di essi è inquadrata in un reggimento della Fanteria di linea, a cui si aggiungono, in misura molto minore, i caduti Bersaglieri e Alpini, e a seguire il Genio e l’Artiglieria. È questa un’evidenza quasi scontata: è più facile aver occasione di essere ferito o ucciso se si è in prima linea, ma mano che si arretra dal fronte questa possibilità diminuisce sensibilmente: infatti mediamente cade un fante ogni cinque ma per l’artiglieria questa proporzione diminuisce a uno ogni venti. Più semplicemente: considerando i soldati effettivamente impiegati al fronte, uno su sette non vede la fine della guerra, perché ucciso prima. Riguardo all’età dei caduti, i soldati novaresi mostrano una più marcata prevalenza della fascia di età sino ai 25 anni, pari a circa il 53 per cento del totale. A livello nazionale i caduti con età sino ai 25 anni sono la metà dei caduti complessivi, pur rappresentando il 43 per cento dei mobilitati. Oltre la metà dei caduti novaresi muore nel 1916 e nel 1917, per quasi tutti il motivo della morte è per ferite riportate in combattimento o, più genericamente, per essere caduti in combattimento; mentre per i militari morti nel 1918 appare con più frequenza il motivo della malattia come causa di decesso, soprattutto per coloro che muoiono alla fine dell’estate e inizio autunno, quando la Spagnola inizia a diffondersi in modo devastante. È possibile, naturalmente, individuare il caduto più anziano – il colonnello dello Stato Maggiore Ettore Giordano, morto a 47 anni nel 1917 a Perarolo per la caduta di una valanga – e i più giovani: due ragazzi del 1899, Mario Balzarini e Pietro Barale, caduti entrambi nel 1917, il primo sull’Altopiano di Asiago, il secondo sul Piave.
Ferite e morte
Ferite riportate in combattimento: questa è la motivazione più frequente della morte dei soldati novaresi in guerra. Una dichiarazione quasi anodìna nella sua chiara e diretta formulazione. Al soldato ferito in combattimento toccano due possibilità: morire dove si trova magari dopo una lancinante agonìa; oppure – se è fortunato o le ferite consigliano il trasporto – quella di essere portato a un posto di medicazione e, se ritenuto guaribile, magari più indietro, in un ospedale da campo, o più indietro ancora, con un treno ospedale o una ambulanza, anche di fortuna, a un ospedale lontano dal fronte. E in questo viaggio, sono precise le disposizioni al riguardo, chi è ferito non deve essere fatto incrociare con i rincalzi che vanno in linea, questo per «evitare un’impressione deprimente» (28) nei rincalzi. Molti soldati novaresi cadono in combattimento sul Carso o sull’Isonzo: come il soldato Ercole Mazza, il caporalmaggiore Domenico Mizia, il sergente maggiore Alessandro Montani. Cosa possono significare quelle ferite lo spiegano bene le testimonianze dei sopravvissuti di quei teatri di guerra: un soldato ferito, con la «mandibola asportata; si vedeva la gola, scoperta: tutti gli auguravano la morte», oppure un ordigno inesploso che devasta un soldato «tutte e due le mani, il mento, la lingua, gli occhi non esistevano più, dalla parte del cuore gli mancava tutta la mammella, fu caricato subito in una barella, il dottore non ci volle neppure mettere le mani da come era conciato e infatti due ore dopo cessò di vivere». A un soldato una scheggia di granata asporta i testicoli e grida al suo capitano: «Se sei un padre di famiglia dovresti prendere la rivoltella e amasarmi. Cosa faccio più di me?». Le ferite sono terribili: fra i caduti novaresi vi è un soldato originario di Casalbeltrame, Giovanni Bestazzi, morto nel dicembre 1916 all’ospedale da campo numero 101, a Turriaco, per «ferite da schegge di granata all’inguine, lacerazione dello scroto e distruzione del perineo» (30). Il muratore Gaudenzio Bozzola, caporale del 23mo Fanteria, viene ferito a morte e sepolto a Cortina d’Ampezzo. Il referto, redatto all’ospedale da campo numero 40 dove muore, parla di «grave ferita d’arma da fuoco, frattura delle ossa, lesione delle parti molli» (31). La morte può arrivare anche dal cielo. Il soldato Santino Bozzola è un contadino che ha in questa sua condizione anche un abito mentale, abituato a leggere i giorni e le vicenda umane come un contadino che guarda il cielo indovinando il tempo per il raccolto. Nel 1916 scrive infatti una cartolina in franchigia al cugino, che abita nel borgo di Sant’Agabio, in cui dice di «stare meglio» dopo aver passato «un po’ di mese non troppo bene, molta neve e freddo…»(32). Il 7 febbraio 1918 un solitario aereo austriaco lancia alcune bombe sulla zona d’operazioni in cui si trova il soldato, che rimane ucciso perché colpito «alla testa e alle gambe da schegge».
Lo zaino dei caduti
La mesta contabilità degli effetti personali dei caduti, che sono elencati per essere trasmessi poi ai famigliari, quasi sempre i genitori, ci dice cosa un soldato si porta in guerra, da cosa è composto il proprio piccolo mondo quotidiano. Ci dice che questi pochi e poveri oggetti, che costituiscono l’universo del soldato, e il suo più saldo legame con gli affetti a casa, serve a una minima igiene e cura personale, serve a scrivere a casa, e a conservarne la corrispondenza; serve ai piccoli imprevisti, con spille o un piccolo – o grande – tesoretto di denaro; serve a misurare il tempo, con un orologio che i più portano in tasca, legato con una catena. A Barbara Tencaioli, madre del soldato Gaudenzio Bozzola, vengono recapitati «un rasoio e un pennello, un fazzoletto, un portamonete contenente lire 2,45, un orologio con catena, un portafoglio di pelle, una busta di stoffa con carta, uno specchio». Un corredo analogo è quello consegnato alla madre del soldato Angelo Borrini: «un portafogli, un portamonete, corrispondenza, carte varie, centesimi 15»; mentre «sul cadavere del povero soldato Antoniotti Natale di Giuseppe» sono ritrovati «un portafoglio, otto francobolli, una foto, due immagini, un pettine, un notes, uno specchio, una busta di panno con corrispondenza, una matita, una penna, un paio di forbici tascabili, quattro spilli di sicurezza, una busta con 40 lire, un libretto personale, un orologio di metallo con catena».
Gli attacchi con i gas
Per attacchi con gas muoiono sul Carso il soldato Carlo Landoni, in Albania il caporale Carlo Lavé, sull’altopiano di Asiago il soldato Emilio Rognoni. La morte per gas è la grande novità del conflitto. Si muore perché si respirano i gas, fosgene o iprite, oppure se si è intorpiditi dai gas inalati e non si è in grado di opporre resistenza agli assalitori – spesso un lancio di gas precede un assalto – è certo il colpo di grazia portato con le micidiali mazze ferrate in uso nei reparti austriaci, peraltro come in tutti gli eserciti in guerra tranne in quello italiano (33). La morte per gas è la più temuta: si muore sapendo di morire: «Non si può rifiatare e si è vivi ancora» (34), ma la morte può annidarsi nei polmoni e nell’organismo per settimane, mesi, anni … Il primo attacco con i gas sul fronte italiano, da parte dell’esercito austroungarico, è datato 29 giugno 1916, nella zona del monte San Michele, un rilievo carsico di poco meno di trecento metri sul livello del mare. Proprio in questa occasione muore il soldato Carlo Landoni, ma con lui c’è anche un altro novarese, il caporale Luigi Crivelli, mentre per ferite muore nella stessa battaglia il caporale Adolfo Gallinotti. Sul San Michele vi sono, nel corso della guerra, diverse vittime novaresi: nel 1915 sono dispersi il soldato Giovanni Gambini e il soldato Mario Buffetto e muoiono per ferite riportate il soldato Francesco Trivi e il soldato Angelo Vellata; nel 1917 è ucciso il soldato Giuseppe Valdani. Benché atteso (35), l’attacco con i gas sul San Michele del giugno 1916 è devastante: le spazio fra le trincee italiane e austriache è anche inferiore ai cinquanta metri, questa breve distanza fa sì che le sentinelle italiane non riescano neppure a dare l’allarme all’avvicinarsi della nube gassosa, spinta da un vento favorevole; altra condizione nefasta è data dal rinchiudersi, sperando di salvarsi, di molti soldati italiani in rifugi e trincee interrate, che si trasformano invece immediatamente in micidiali camere a gas. In poche ore, muoiono ottomila soldati italiani, ma l’attacco non sortisce effetti duraturi per il nemico, essendo le posizioni perdute subito riconquistate dagli Italiani con un efficace contrattacco (36).
Incidenti, naufragi, destini beffardi …
Vi sono molti modi di morire in guerra, e non mancano incidenti, eventi naturali, naufragi. Le valanghe fanno diverse vittime. All’inizio del 1916, sul Col di Lana, è ucciso il soldato Alfredo Borgini; nel dicembre dello stesso anno, in val Costeana, è travolto con altri l’artigliere Pietro Bonola. Nel marzo 1916, sulle Tre Cime di Lavaredo muore il soldato Pietro Violini; nel 1917, in Val Padola, è ucciso il soldato Natale Merlo. Numerosi gli infortuni per causa di guerra o di servizio, come recita la burocrazia militare: nel 1915 è vittima di questo tipo di eventi il soldato Alberto Fedeli; nel 1916 i soldati Giovanni Borgini e Francesco Guida; nel 1917, Gaudenzio Brustia e Giovan Battista Giarda; nel 1918, Achille Righetti – il 21 dicembre di quell’anno, a guerra ormai finita – e Pietro Scandella; nel 1919 ancora un infortunio, che costa la vita al soldato Angelo Tagliaretti. Ancora un incidente, ma si specifica «d’aviazione», in un punto imprecisato del mare Adriatico costa la vita al sergente Astorice Galvani, appartenente alla 14ma squadriglia dell’aviazione. Infortuni, ma anche naufragi: è quello che costa la vita al soldato Pietro Borgini, prima militare del 2° Fanteria, poi del 22mo Reparto d’Assalto, che scampa alla guerra per morire nel naufragio della nave sulla quale è imbarcato, diretto in Tripolitania, il 21 marzo 1919 (37). Esemplarmente drammatico della inumanità della guerra è il destino del soldato Gaudenzio Brustia, fornaciaio del Torrion Quartara: nel gennaio 1917 muore all’ospedale militare di Torino, lasciando una giovane vedova e due bambini di pochi anni. Il 31 ottobre 1918, a guerra ormai agli sgoccioli, muore anche la vedova, lasciando orfani i due figli (38). Destino beffardo… Pensiamo alla vicenda del soldato Dante Bonzi, originario di Milano, che sopravvive alla guerra per morire per una banale caduta da un vagone di un convoglio militare alla stazione di Castano Primo il primo gennaio 1919 (39).
La morte senza corpi. I dispersi
La burocrazia militare ha una frase elegante e indiretta, per comunicare lo stato di disperso per un militare: «Non venne riconosciuto tra i militari morti né fu denunziato come prigioniero»40. Risultano dispersi il caporale Felice Badà, il soldato Ercole Ballara, il caporale Serafino Bellotti, il soldato Giovanni Bosotti… In alcuni casi la notizia della dispersione in combattimento è poi mutata in quella di caduto o prigioniero. Il soldato Carlo Brustia, della frazione di Pernate, risulta disperso dopo un combattimento nel 1917, successivamente è confermata la sua condizione di prigioniero di guerra. Il 28 agosto 1918 muore per «esaurimento» all’ospedale di Aschach (41). Non si viene riconosciuti perché i corpi non si trovano o se si trovano spesso sono brandelli umani senza identità. Chi cade sul campo può rimanere ore, giorni, mesi insepolto. Può decomporsi sotto lo sguardo dei vivi, mandando odori terribili: «vi sono dei morti che anno già la faccia nera ma si vedono i denti bianchissimi ed una puzza che se facesse caldo non si potrebbe resistere e lungo la trincea ne vedo diversi che sembra che dormano e ne vedo degli altri che sono metà sepolti e metà fuori dalla terra» (42). Quest’ultima testimonianza fa riferimento all’autunno 1915, sul San Michele, dove cadono il soldato Luigi Berinzoni e il soldato Francesco Trivi; mentre il soldato Giovanni Gambini sul San Michele è disperso in combattimento. Diversi dispersi si registrano tra i militari che scompaiono – potremmo scrivere ora: muoiono – durante i convulsi e drammatici momenti dello sfondamento delle linee italiane a Caporetto e la conseguente ritirata al Piave (43), chiamato ripiegamento nei documenti ufficiali: il caporalmaggiore dei Bersaglieri Domenico Bottini, i fanti Giovanni Frattini e Aurelio Gavetti; il sottotenente di complemento Mario Stangalini, il sottotenente della Milizia territoriale Cesare Toselli.
Comunicare la morte
Alla famiglia la notizia della morte del marito, di un figlio, di un fratello, del padre è normalmente comunicata dal Comune, a cui il fatto è notificato dall’autorità militare. Il 29 gennaio 1917 il comandante del 122mo Reggimento fanteria di linea conferma al sindaco di Novara Bonfantini che «riuscite infruttuose le indagini sulla sorte toccata al soldato Bertone Luigi (44) non può che confermare la dispersione… con preghiera di darne comunicazione alla signora Giordano Maria Teresa via San Gaudenzio 2» (45); la comunicazione alla moglie del militare è fatta in data 12 febbraio 1917. In qualche caso la burocrazia militare sembra avvertire il peso della comunicazione di una morte, e allora si raccomandano i «dovuti riguardi» nella consegna della notizia, ad esempio come fa il Comandante del Deposito dell’81mo Fanteria confermando al sindaco Bonfantini la morte del soldato Angelo Borrini (46) o come si premura di indicare anche il direttore dell’Ospedale militare di riserva di Firenze nella sua comunicazione del gennaio 1918 al sindaco di Novara riguardo al soldato Giuseppe Bellotti, disperso in combattimento (47). Nell’ambito dell’attività di assistenza alle famiglie e di raccolta informazioni sui soldati al fronte, l’amministrazione comunale è riferimento per le pratiche di pensione per i famigliari superstiti (48) e anche interpella direttamente l’autorità militare, su richiesta della famiglia, per avere notizie certe dei militari al fronte, di cui magari da mesi non si hanno notizie. Così nell’aprile 1919 il sindaco Bonfantini scrive al Ministero della Guerra informando che «dal luglio scorso non si hanno notizie del soldato di sanità Beltrame Pietro fu Antonio e di Magretti Maddalena, nato in Recetto il 24 giugno 1897 che risultava prigioniero di guerra in Germania» (49). La risposta non lascia speranza alcuna: «Con rammarico si comunica la morte del prigioniero di guerra soldato della 43ma Sezione di Sanità avvenuta a Maschede il 28 aprile 1918 per polmonite. La salma fu sepolta nel locale cimitero militare» (50): il 3 giugno il sindaco comunica la notizia alla madre del soldato. Con un ritardo di molti mesi, e solo dopo l’intervento dell’amministrazione comunale direttamente presso la Croce rossa austriaca, arriva la conferma della morte in prigionia del soldato Genesio Bossotti, prigioniero di guerra internato a Mauthausen, dove muore, all’ospedale di riserva di Benthen, il 18 ottobre 1917 per una malattia intestinale (51).
Vite
I fascicoli personali dei caduti consentono anche di guardare dentro alle vite loro e dei loro cari, delineando uno spaccato della vita a Novara delle classi popolari e borghesi. Le notizie che escono dalle carte d’archivio, nel mentre fanno riferimento a fatti privati, sono parimenti in grado di fornire una chiara dimostrazione dell’impatto della guerra e della morte in guerra sulla società cittadina e sulle famiglie. Anche Novara ha la sua generazione perduta, soldati e ufficiali che dalla guerra non tornano e premuoiono ai propri padri. I documenti delineano storie di affetti, attenzioni, progetti di vita che sono stati interrotti bruscamente e per sempre. Vi sono casi di figli che fanno i mestieri dei padri, perché in una società come quella di inizio Novecento la mobilità è sconosciuta. E allora possiamo immaginare Luigi Bottini, del borgo di Sant’Andrea, che di mestiere fa il facchino alla Rotondi, che fa entrare nello stesso stabilimento il figlio Angelo, la cui paga alla chiamata alle armi è di 3 lire al giorno (52); oppure Agostino Bianchi che al lavoro di impiegato al Piccolo Credito Novarese ci arriva forse perché il suo papà, che è morto, in quella banca già ci lavorava. Gaudenzio Bozzola fa il muratore, come il suo papà Giovanni. In una tintoria lavorano sia Natale Brustia che suo figlio Cesare, soldato della classe 1900 morto il 17 marzo 1920, pochi giorni prima del suo ventesimo compleanno (53). Fra i caduti novaresi anche il soldato Angelo Borrini, la cui mamma è ricoverata fra le cieche dell’ospedale di San Giuliano, e firma con una croce la ricevuta della comunicazione della morte del figlio (54). Oppure Santino Borazzi, che non ha più i genitori e vive con i nonni, soccorrendoli con il suo magro guadagno di manovale: in un pomeriggio di aprile del 1919 la nonna riceve la comunicazione che il nipote è morto all’ospedale militare di Vercelli, quasi una beffa per un orfano che forse pensava di aver scampato la morte in guerra. La diagnosi è tubercolosi polmonare, forse più efficacemente si deve intendere Spagnola. Poi i nomi: che si passano di nonno in padre e in figlio, di generazione in generazione. Ad esempio la guardia daziaria Enrico Borzoni è figlio di Luigi e chiama Luigia la sua bambina, che ha pochi anni quando il padre muore; oppure un collega di questi, il Lorenzo Borgini di cui abbiamo già detto, caduto «sul campo dell’onore» nel maggio 1916, ha il nome di suo nonno (55). Infine un dato che risalta con drammatica evidenza: fra i caduti novaresi vi sono almeno dieci coppie di fratelli. Si tratta dei soldati Enrico e Antonio Carroceri, Francesco e Giuseppe Comune, Giuseppe e Gaudenzio Valdani, Angelo e Antonio Vecchio, Francesco ed Ernesto Guida, Aminta ed Enrico Nicola, Carlo ed Emilio Pistoia, Giovanni e Pietro Prestinari, Francesco e Giuseppe Sassi, Antonio e Angelo Vecchio. Il titolo di questo articolo è tratto dalla motivazione per la concessione della medaglia d’argento al valor militare alla memoria all’alpino Francesco Accornero, nativo di Viarigi ma appartenente al Distretto militare di Novara, caduto in combattimento sul monte Asolone il 18 dicembre 1917. La motivazione delle decorazioni al militare (che meritò anche una medaglia di bronzo al valore militare) si trovano nel suo fascicolo personale conservato in: Archivio di Stato di Novara, Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2864.
Articolo pubblicato sul numero 23 (2016) della rivista “I Sentieri della Ricerca”
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Note al testo
1 Vedi Emilio Gentile, L’apocalisse della modernità. La grande guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008.
2 Il senso della guerra lo ha sintetizzato efficacemente Giani Stuparich, intellettuale, volontario in guerra, medaglia d’oro al valor militare: «In fondo subito dopo i primi giorni, ci siamo accorti che in guerra, avanti tutto, si muore; poi si combatte, poi si vince o si perde, e da ultimo appena, c’è la speranza di poter sopravvivere, ferito o incolumi». Vedi Giovanni Domenico Stuparich, Guerra del ’15, Einaudi, Torino 1980, p. 46.
3 George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1990.
4 Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Vedi anche Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande Guerra, a cura di A. Scartabellati, Marcovalerio Edizioni, Torino 2008.
5 Stefania Bartoloni, Italiane alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918, Marsilio, Padova 2003, p.18 e nota. Più in generale, vedi Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, Roma-Bari 1987.
6 Barbara Bracco, La patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande Guerra, Giunti, Firenze 2012, p. 55.
7 John Keegan, Il volto della battaglia. Azincourt, Waterloo, la Somme, Il Saggiatore, Milano 2010.
8 Andrea Rebora, Morire nella Grande Guerra. Le testimonianze dei combattenti, Prospettiva editrice, Civitavecchia 2001, pp. 27 ss.
9 P. Scolé, I morti, in Dizionario storico della prima guerra mondiale, a cura di Nicola Labanca, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 178.
10 Marco Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare. 1914-18, Il Mulino, Bologna 2014, p. 66.
11 Verbale della Giunta Municipale del 6 febbraio 1923, in Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, categoria 4, Faldone 340. In questo documento l’assessore Marchisio, dopo aver deplorato la scelta dell’amministrazione Bonfantini di erigere due monumenti, uno al cimitero e uno in pubblica piazza, cioè il monumento sull’Allea, segnala «come indegna di quell’amministrazione e di una mentalità bassa e vile quello di aver voluto mettere accanto al nome dei nostri morti anche quello dei nemici, a diminuzione e vilipendio del sentimento patriottico. La Giunta delibera conseguentemente alla proposta anzidetta, di dare seguito al lavoro commesso allo scultore cav. Cantoni, con esclusione però dei nomi degli stranieri dalle targhe d’iscrizione». Marchisio riprende nel suo intervento le intenzioni già espresse dall’assessore Carnevale che, dopo aver criticato anch’egli l’oneroso impegno della costruzione dell’obelisco, conferma che l’opera (l’obelisco al cimitero) sarà compiuta «con esclusione però dalle targhe dell’obelisco dei nomi degli stranieri».
12 Rileviamo che, sulle singole cartelle personali conservate in questo fondo, non compare mai la definizione di grande guerra o prima guerra mondiale, categorie che appartengono a periodi successivi. Il conflitto è definito guerra italo austriaca, oppure guerra europea.
13 La collocazione precisa di questo materiale è la seguente: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte III, fascicoli dal 2864 al 2888, compresi. Naturalmente non vanno dimenticati i singoli fogli matricolari, per il Distretto militare di Novara depositati all’Archivio di Stato.
14 I fascicoli fanno riferimento a soldati novaresi o che a Novara sono nati o vi hanno transitato – loro o le loro famiglie – in un intrecciarsi di vicende e con un notevole lavorìo da parte degli uffici comunali. Ad esempio vi è la vicenda del soldato Antonio Affannato, «tué à l’ennemi» come soldato del primo reggimento della Legione Straniera, sconosciuto all’Anagrafe comunale e la cui famiglia probabilmente risiede a Novara, per poi allontanarsene verso Torino (vedi fascicolo ad nomen). Oppure quella del fante Giacomo Ardizio, «non iscritto in anagrafe» (vedi fascicolo ad nomen), o quella del sottotenente Mario Abbone, novarese, ma appartenente al Distretto militare di Pavia (vedi fascicolo ad nomen).
15 I fascicoli sono spesso formati per istruire pratiche di pensione per gli eredi, ma documentano anche corrispondenza fra i militari al fronte e le famiglie e aprono uno spaccato sociale sulla comunità novarese del primo Novecento attraverso la ricostruzione di stati di famiglia, di situazioni economiche, di mestieri e professioni, di legami parentali.
16 L’elenco si trova in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Categoria 4, Faldone 340. In questo faldone si trovano anche altri due interessantissimi elenchi: quello dei militari morti all’ospedale di Novara e sepolti nel cimitero urbano – 466 nominativi – e quello dei prigionieri di guerra morti e tumulati a Novara, incompleto in quanto di 75 nominativi e non di 76. Sui prigionieri di guerra nel Novarese vedi R. Fiammetti, Primi appunti per una storia dei prigionieri degli Imperi Centrali nel Novarese durante la Grande Guerra, in «I sentieri della ricerca», 11(2010), pp. 99-114.
17 Si vedano i singoli fascicoli del personale militare conservati in Archivio di Stato di Novara, Parte Terza. Ad esempio non sono riportati sulla targa i nomi dei soldati Vittorio Abbiate, residente a Novara e morto all’ospedale militare di Cuneo, per malattia, nel 1917, e Luigi Gatti, novarese, morto in combattimento sul Medio Isonzo nell’autunno 1915 per ferite riportate. Non compare neppure il nome di Francesco Condò, «ufficiale d’ordine del Magazzino Casermaggio» morto il 10 febbraio 1917 «in servizio e per causa di esso». In quest’ultimo caso, a complicare la vicenda di questo ufficiale, anche il rigetto della pensione di guerra che la vedova aveva richiesto già all’indomani della morte del marito.
18 Archivio di Stato di Novara, Archivio Comune di Novara, Parte terza, Faldone 2864, fascicolo ad nomen.
19 Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Archivio Comune di Novara, Parte terza, Faldone 2864.
20 Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Archivio Comune di Novara, Parte terza, Faldone 2865.
21 Archivio di Stato di Novara, Archivio Comune di Novara, Parte terza, Faldone 2864, fascicolo ad nomen.
22 Aldo Cazzullo, La guerra dei nostri nonni. 1915- 1918: storie di uomini, donne, famiglie, Mondadori, Milano 2014, p. 38. Nell’Albo d’oro dei caduti sono presenti quattro soldati tutti originati del Comune di Gattinara, Distretto Militare di Vercelli, con cognome Scribanti. Ovviamente, nessuno dei quattro è il militare citato da Cazzullo.
23 M. Mondini, La guerra italiana cit., p. 65.
24 Ibidem. I dati nazionali analizzati da Mondini (mobilitati, caduti, mutilati, etc.) delineano un quadro poco conosciuto della partecipazione italiana alla guerra europea. Ad esempio, a fare la guerra sono chiamati soprattutto settentrionali, oltre la metà dei mobilitati, ma per la differenza tra forza mobilitabile e soldati effettivamente chiamati alle armi, ad esempio il Piemonte nel 1915 manda al fronte quasi lo stesso numero di soldati della Sicilia.
25 A. Rebora, Morire nella grande guerra cit., p. 17.
26 M. Mondini, La guerra italiana cit., p. 66. Mondini rimarca questa discrepanza, motivandola con la strategia dissennata degli attacchi diretti, le cosiddette spallate di Cadorna, che brucia inutilmente centinaia di migliaia di giovani soldati.
27 Sugli effetti dell’epidemia di Spagnola nella provincia di Novara, vedi R. Fiammetti, L’epidemia di spagnola nel Novarese durante la prima guerra mondiale, in «I sentieri della ricerca», 18 (2014), pp. 93-111.
28 Così una circolare del Comando supremo italiano del giugno 1916 citata in: Lucio Fabi, Gente di trincea. La grande guerra sul Carso e sull’Isonzo, Mursia, Milano 1994, p. 162.
29 Ivi, p. 160. 30 Comune di Casalbeltrame, Registro dei morti, n.1 parte II serie C , 20 gennaio 1917.
31 Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865.
32 La cartolina, datata 12 maggio 1916 si trova nel fascicolo personale del soldato in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865.
33 Sul tema vedi Filippo Cappellano, Basilio Di Martino, La guerra dei gas. Le armi chimiche sul fronte italiano e occidentale durante la guerra, Gino Rossato editore, Valdagno 2006.
34 Così la testimonianza di Luigi Bartolini nel suo Il ritorno sul Carso, Mondadori, Verona 1930, pp. 80-81. 35 Il Comando italiano si aspettava un attacco con i gas nella zona del San Michele e aveva, sin dalle settimane precedenti, sollecitato l’invio di maschere e occhiali antigas in numero sufficiente. Vedi F. Cappellano, B. Di Martino, La guerra dei gas cit., pp. 116 ss.
36 Ivi, p. 117.
37 Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865.
38 Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865.
39 Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865.
40 Così per il soldato Pietro Avondo, artigliere di 31 anni, disperso nel 1917 al Ponte di Codroipo. Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2864.
41 Vedi il suo fascicolo personale in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865.
42 L. Fabi, Gente di trincea cit., p. 161.
43 Mario Silvestri, Caporetto, Rizzoli, Milano 2003.
44 Soldato Luigi Bertone, della classe 1884, disperso in combattimento sul Carso dal 16 settembre 1916. Una prima comunicazione che confermava lo stato di dispersione è del 5 maggio 1917 ed è fatta sempre dal comando del 12mo Fanteria al sindaco Bonfantini. Nella vita civile era un fattorino di banca.
45 Comunicazione del comando del 122 Fanteria al sindaco di Novara del 29 gennaio 1917 in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen.
46 La lettera, dell’8 ottobre 1917, si trova in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen.
47 Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen.
48 Così è, ad esempio, per la vedova del soldato Giuseppe Bestazzi, di cui abbiamo già detto, che riceve una pensione per la perdita del marito. Le comunicazioni al riguardo si trovano in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen.
49 Lettera del sindaco di Novara Giuseppe Bonfantini al Ministero della Guerra dell’aprile 1919 in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen.
50 Lettera del Ministero della Guerra al Sindaco di Novara del 26 maggio 1919 in: Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen. Soldato Beltrame Pietro, contadino, della classe 1892 (l’anno di nascita 1897 indicato nella corrispondenza è errato).
51 Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen.
52 Angelo Bottini muore in prigionia il 22 febbraio 1918 per pleurite. Una triste curiosità: la minuta della lettera del Comune di Novara al padre Luigi in cui si annuncia la morte del figlio ha sul retro analoga minuta per il caduto Angelo Bianchi. Probabilmente si riciclavano i fogli di preziosissima carta. Vedi il fascicolo personale in Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865.
53 Archivio di Stato di Novara, Fondo Comune di Novara, Parte Terza, Faldone 2865, fascicolo ad nomen.
54 Il fascicolo personale di C.C., madre del militare, si trova in: Archivio di Stato di Novara, San Giuliano, parte terza, n. 338. Sulla vicenda storica delle cieche ospitate nell’Ospedale di San Giuliano a Novara vedi il capitolo Le perdute donne di San Giuliano in: R. Fiammetti, «Alla cura e al governo dei calzolai». Carità, assistenza, ruolo politico e sociale dei calzolai novaresi e del loro ospedale di San Giuliano (secoli XIII – XX), Lampi di Stampa, Milano 2004, pp. 78-79.
55 Lorenzo Borgini svolge il mestiere di muratore. Nel dicembre 1913 fa domanda per diventare Guardia daziaria ausiliaria, incarico che ricopre dal settembre 1914, prestando giuramento il 15 di quel mese. Novara era allora un cosiddetto Comune chiuso, cioè aveva una cinta daziaria con agenti che vigilavano sul transito delle merci e riscuotevano il dazio previsto. La cinta daziaria sarà levata dopo la guerra e agli agenti in servizio sarà concessa una specifica indennità. Nonostante la domanda della madre del caduto, nulla sarà attribuito alla guardia Borgini, perché morto prima dell’abbattimento della cinta stessa.