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il sentiero Chiovini
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Istituto storico della resistenza e della società contemporanea Pietro Fornara
la memoria delle alpi
Avevo dodici anni

Era il 22 giugno 1944, una giornata di bel tempo. Due giorni prima avevo compiuto dodici annL Stavo al Casaròl in Val Grande: il Casaròl è un corte con tre casere; due fanno da stalla e fienile e una da cucina. Facevo il garzone al bestiame mucche, capre e il maiale di proprietà dei fratelli Enrico e "Vanin" Andreolotti di Colloro, miei parenti per via delle nostre mamme.
Anche quel mattino, dopo l'alba, ero andato con il Vanin a portare al pascolo le mucche. Da qualche giorno quattro partigiani erano nascosti al Casaròl; uno era il "Gallina" di Colloro. Quel mattino, prima dello spuntare del sole ne erano arrivati altri tredici; allora il Gallina e gli altri tre, che avevano i fucili, avevano preferito andarsene via, verso i Quagiui.
Quel mattino, verso le sette, quei tredici partigiani, tutti disarmati, neanche una pistola, stavano preparando un po' di polenta nella casera da fuoco. Qualcuno di loro stava parlando con l'Enrico, quando si presentarono tre soldati tedeschi: venivano da In La Piana dove c'era il loro comando. Uno dei tre aveva, in spalla un brentìn; credo che venissero a prendere il latte. Il primo colpo che uno di loro sparò, ammazzò il nostro cane che abbaiava, poi tutti e tre mirarono ai partigiani che stavano uscendo dalla casera; parecchi vennero colpiti, altri si buttarono in basso e sparirono nel bosco. Io e il "Vanìn" eravamo a poco più di cento metri in linea d'aria e avevamo visto e sentito tutto dopo il primo colpo.
Finita la sparatoria, i tre soldati presero insieme l'Enrico e s'incamminarono lungo il sentiero che porta a In La Piana.
Verso le dieci l'ora di riportare le mucche in stalla ci incamminammo dietro di loro verso il Casaról; quando arrivammo alle casere trovammo cinque partigiani morti e due feriti. Uno dei feriti era a terra davanti a una stalla, l'altro era seduto sul cumulo di fascine di dronz, vicino alla porta della cucina; era quello che i partigiani chiamavano tenente e mi accorsi che era ferito al ginocchio; lo si vedeva, perché portava i braghétt. Credo che fosse ferito anche nella pancia: stava seduto senza muoversi. Alla cintura portava una scatola, forse c'erano dentro dei documenti.
Stavamo ancora osservando la scena, che dalla parte del Muntasél scesero cinque militi fascisti, i quali videro subito i morti e i due feriti. Un milite domandò al tenente di dove era e quello rispose che era di Milano; disse anche il nome della via, ma non lo ricordo; il numero sì, era il 14. Poi il tenente mi chiese un po' d'acqua; andai alla fontana e gliela portai in un sidelin: ne bevve qualche sorsata.
Subito dopo pregò il milite che gli aveva fatto le domande di sparargli e di ammazzarlo. E il milite, mentre gli altri quattro stavano controllando i morti e uccidendo l'altro ferito, sparò cinque colpi da due metri di distanza, poi si allontanò dietro i suoi compagni.
Allora il tenente partigiano mi disse: "Vai a richiamarli e dì a loro che tornino a darmi la grazia". Io li rincorsi e al milite che gli aveva sparato glielo dissi: "Ha detto il tenente di tornare a dargli la grazia". Il milite capì e tornò indietro. Gli sparò un colpo in faccia, lasciandolo morto.
Tornarono anche gli altri quattro fascisti, tolsero dalla stalla quattro nostri capretti e li legarono, con le cordicelle dei paracadute del lancio, alla porta di una casera. Mi ordinarono di far uscire il maiale dal recinto, ma io risposi che avevamo solo quello e che ce lo lasciassero. Entrarono nella casera da fuoco e cominciarono ad ammucchiare tutta la roba da mangiare che trovavano: riso, farina gialla, pane e tutto il resto. Io ne approfittai per slegare i quattro capretti che spinsi verso il bosco, ma i militi, quando si accorsero che non c'erano più, si misero a cercarli e non fecero fatica a riprenderli.
Poi se ne andarono in direzione del Muntasé1, prendendosi insieme il "Vanin", che per tutto il tempo era rimasto fermo in piedi senza fiatare, perché h aiutasse a portare la roba presa e i quattro capretti. Prima che si allontanassero, avevo detto a loro che poi lasciassero tornare indietro il "Vanin", perché io restavo solo al Casaròl. Quando già erano partiti gridai dietro al "Vanin" che quando tornava venisse giù allo Scrivalun, perché io sarei andato là: non volevo restare da solo, con quei sette morti.
Via loro, andai giù allo Scrivalùn e raccontai al "Tinèla" quello che era successo al Casaról. Poco dopo vedemmo che i tre tedeschi tornavano al Casaròl, ma senza l'Enrico. Non potevano essere andati fino In La Piana, non potevano avere fatto in tempo. Venimmo a saperlo dopo, che l'Enrico l'avevano ammazzato strada facendo: forse aveva tentato di scappare. Aveva fuori un occhio e un braccio era spolpato: si capiva che era stato colpito con il calcio del fucile o con qualcosa d'altro.
I tre tedeschi arrivarono al Casaròl per la seconda volta proprio quando il "Vanin", che i fascisti avevano lasciato andare dopo essere arrivati al Muntasè1, stava traversando svelto i prati tra il Casaról e lo Scrivalun. Quando lo videro gli spararono: forse lo avevano preso per un partigiano, forse gli avevano gridato di fermarsi. Il "Vanin", colpito, scappò nel bosco, ma finì per morirci dentro. Fu ritrovato un mese dopo verso la Val Gabbio, perché si sentiva la puzza da distante. Quei tre tedeschi poi, al Casaról, incendiarono due casere e se ne tornarono In La Piana portandosi dietro tre bestie: una mucca e due manzette.
Qualche giorno dopo, forse due, vidi il maggiore Superti insieme a un altro partigiano; io non lo conoscevo che di nome; che era lui me lo dissero la Sandra e la Dorina che, dopo il fatto, erano venute su allo Scrivalun. Al Casaròl i tetti delle due casere distrutte dal fuoco, furono rifatti subito dopo la guerra. Io ci andai ancora per due anni con il bestiame di altra gente di Colloro. Ci passai ancora una volta nel 1952; poi, mai più.

Silverio Dinetti
Testimonianza in CHIOVINI N. Mal di Valgrande Vangelista, Milano, 1991

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