Nella cantina di Villa Caramora
La porta della cantina si aprì e venne fatta entrare una trentina di persone, spinte avanti a calci e a colpi di canna di moschetto da una squadri di omacci inferociti, bestiali, i quali indossavano la cosiddetta onorata divisa del soldato del popolo eletto, dell'Herrenvolk, del superpopolo: il teutonico.
La scena che, dopo l'ingresso in cantina di tanti disgraziati, si presentò al mio sguardo fu delle più penose alle quali io abbia mai assistito.
Penso che un branco di lupi famelici, quando capita in mezzo a un branco di pecore, usi verso le proprie vittime una ferocia meno accesa, meno sadica di quella dei soldati tedeschi verso i poveri partigiani rastrellati in Vai Grande.
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I pugni, le pedate, i colpi di calcio di moschetto, le nerbate non si contavano più. Era una vera gragnuola, che si abbatteva inesorabilmente su dei miseri corpi già grondanti sangue per ogni dove, su dei visi già tumefatti per le percosse ricevute in precedenza. Gli aguzzini sembravano presi nel turbine di un sadico furore, in preda al delirium tremens dì marca tipicamente teutonica.
Ogni nerbata, ogni colpo era per giunta accompagnato da un grugnito che stava a indicare la compiacenza dei carnefici.
Una scena orribile, dicevo, con la quale contrastava la nobile serenità dei torturati. Non un grido, non un lamento. Una fierezza diffusa sul volte di tutti. Dal mio posto di osservazione ogni tanto ero costretto a chiudere gli occhi per non vedere. Temevo di impazzire per lo sdegno suscitato in me da tanto scempio, cui ero costretto ad assistere impotente.
Reputo che i patrioti della Val Grande, dopo aver duramente combattuto il nemico sul campo, abbiano saputo sopportare il suo bestiale furore vendicativo con la stessa fierezza e serenità che opposero ai loro aguzzini gli antichi martiri cristiani, i patrioti del nostro e di tutti i risorgimenti.
Il vertice della furibonda esplosione di odio contro quei poveri partigiani venne raggiunto quando, ordinato loro di distendersi bocconi per terra, i teutonici si misero a pestarli camminandoci sopra con gli scarponi chiodati, grugnendo animalescamente.
Notai che tra i partigiani vi era una donna, di statura media, di colorito bruno, sui venticinque anni. Anche a costei non furono risparmiati i maltrattamenti, anzi, starei per dire che la dose delle angherie sia stata nei suoi confronti maggiore. Mi parve che quando arrivava il suo turno, il nerbo si abbassasse sulle sue spalle con maggior furore e più violenti fossero i calci che la raggiungevano da ogni parte. Eppure quella coraggiosa donna non solo incassò ogni colpo senza emettere un grido, ma, calma e serena, faceva coraggio agli altri giovani, malconci da quella furia bestiale.
Ravvisai con una fitta al cuore, che tra i partigiani catturati c'era anche il caro tenente Rizzato del campo 12, l'aiutante maggiore del gruppo.
Il suo bel volto, di un ovale perfetto, dagli occhi già pieni di tanta luce, era diventato una povera maschera intrisa di sangue, orribilmente tumefatta per le percosse ricevute. Lo riconobbi a stento.
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I guardiani diedero un'occhiata alla loro divisa. Alcuni si tolsero la tuta mimetica, rimanendo in camicia e in pantaloni marrone. Qualcuno manovrò per prova i congegni dell'arma della quale era in possesso; tutti poi si diedero con fervore a ravviarsi i capelli, guardandosi nello specchio del quale ognuno era in possesso, e avendo cura che la scriminatura segnasse una impeccabile linea retta, dall'occipite alla regione frontale sinistra, senza sgarrare di un pelo.
Tutto questo mi dava l'impressione di gente in procinto di recarsi ad assistere a uno spettacolo che si preannunciava assai divertente, e non già di persone che, per contro, si accingevano a compiere un eccidio senza nome.
Emilio Liguori
Memoria in LIGUORI E. Quando la morte non ti vuole in "Verbanus" n° 2/1980.
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