Con i malati e i vecchi e nuovi feriti
All'alba del 12 giugno le forze nazifasciste cominciarono l'attacco ai nostri distaccamenti avanzati. lo ero al "posto 8" sopra Alpe Boè per curare il partigiano Sergio ferito il giorno prima in uno scontro a Mergozzo; di là mi portai immediatamente al "posto 12" (Orfalecchio) con l'intenzione di evacuare i feriti e gli ammalati: trovai il tenente Rizzato che mi aiutò a convogliare i feriti e gli ammalati fino a Velina, dal capitano ""Mario"".
Sotto Velina infuriava il combattimento che durò sedici ore, poi il capitano ""Mario"" diede l'ordine di ritirata; anch'io con i malati e i vecchi e nuovi feriti dovetti seguire la colonna in ritirata in mezzo a grandi difficoltà, non ultima il buio pesto. Si camminava alla cieca, si ruzzolava spesso; per non precipitare, i feriti si tenevano per mano, formando una dolorosa catena umana. Ma il morale di tutti era alto e mi commoveva: ognuno aveva la coscienza di compiere il proprio dovere verso la patria tradita e invasa, disposto anche all'estremo sacrificio per la libertà e la rigenerazione del popolo italiano.
Dopo lunghe ore di cammino arrivammo il mattino dopo vicino all'Alpe Busarasca; qui una staffetta mi avverti che il partigiano Scampini, ferito gravemente a Ponte Casletto, era stato trasportato all'Alpe Casale dei Galli, a mezz'ora da Pogallo. Il capitano "Mario" mi diede come scorta il partigiano Antonio; la marcia fu lunga e penosa perché la zona era già controllata dal nemico. Arrivati, trovammo il ferito che giaceva sul fieno di una baita; era avvolto in un lenzuolo inzuppato di sangue, aveva un aspetto quasi cadaverico.
Lo visitai accuratamente e constatai che aveva una perforazione addominale con segni manifesti di peritonite in atto, perciò non potevo far altro che tentare l'intervento chirurgico. Lo feci nella stessa balta, ci si vedeva poco e accendemmo una candela.
Cominciai. Fatta la breccia la tenni aperta con i divaricatori, feci il drenaggio e cucii con graffette le lacerazioni prodotte dal proiettile. Terminato l'intervento mi accorsi che il ferito aveva un'abbondante ematuria, quindi si trattava anche di una perforazione renale. Era ancor più grave di quanto avessi immaginato in un primo tempo: presi il coraggio a due mani e gli praticai un'iniezione che sembrò avere effetto.
Affidai il ferito al boscaiolo Vincenzo e ad altri suoi compagni carbonai del luogo, dopo aver dato a loro precise istruzioni fintantoché non fossi tornata a rivederlo; ma dato il pericolo incombente di essere scoperto dalle truppe tedesche, il giorno dopo essi deposero il ferito sotto un masso sporgente della montagna, dove rimase per quattordici giorni tra la vita e la morte.
Mi incamminai per raggiungere il grosso lasciato vicino a Busarasca; mentre stavo in una baita diroccata in attesa che cessasse un improvviso acquazzone, venni raggiunta da due compagni di Milano che erano con me a Corte dei Galli, i quali mi resero il denaro che avevo lasciato ai boscaioli in cambio delle cure allo Scampini; questi ultimi lo avevano rifiutato ritenendo la loro opera assolutamente doverosa.
Raggiunto il grosso e ripartiti, nella notte del 15 giugno valicammo la bocchetta di Terza; nel buio molti scivolavano ferendosi; fu necessario rallentare la marcia e raccogliere questi altri feriti, ai quali soltanto all'alba potei portare le cure necessarie. Eravamo nella Valle di Viccio e dappertutto si notavano le truppe nazifasciste che fino a quel momento ci sembrava non si fossero accorte della nostra presenza.
Il capitano "Mario" decise di aspettare il buio della notte per riprendere la marcia e tentare di attraversare le linee nemiche. Ripartimmo con un buio pesto e sotto una pioggia torrenziale; eravamo stanchi e affamati.
Qualche ora più tardi, per fortuna, tornò il bel tempo. Poco dopo si cominciò a sentire sparare: le nostre pattuglie avanzate avevano attaccato il nemico ed erano riuscite a sfondare. La battaglia infuriava sempre più accesa attorno a Pian di Sale, con alterne vicende.
La maggior parte della colonna riuscì a passare dall'altra parte della strada, per Malesco, ma un buon terzo non riuscì e dovette ritirarsi di nuovo sopra Finero: tra questi ultimi c'ero io con i feriti. La fame si faceva sempre più sentire e noi non sapevamo che fare, dove andare; qui non eravamo in Val Grande o in Val Pogallo: qui la popolazione aveva una spaventosa paura delle rappresaglie nemiche e ci rifiutava ogni aiuto.
Maria Peron
Comunicazione letta a Radio Verbania Libertà il 1° maggio 1945
In CHIOVINI N. Val Grande partigiana e dintorni Comune di Verbania, Comitato della Resistenza, 1980
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